C’è un artista contemporaneo americano che ha costruito il proprio mito attorno ad una performance che è tale e quale una lunga sequenza (quasi un film nel film) di Nostra signora dei turchi. E non l’ha mai rivelato a nessuno che la sua fonte d'”ispirazione” era proprio quell’opera prima di Carmelo Bene regista che nel 1968 vinse il premio della giuria al festival di Venezia e che, quindi, proprio in virtù di questo premio e della conseguente notorietà della pellicola così tanto poco canonica, l’artista americano, con molta probabilità, aveva già avuto modo di vedere in quel di Los Angeles, quando nel 1972 presentò al mondo (cioè la California) la sua “rivoluzionaria”, “irriverente”, “grottesca” “opera d’arte” che lo consacrò d’un botto allo status di genio.
Neppure quando , in anni più recenti, i curatori d’una sua mostra retrospettiva hanno voluto affiancare alle sue opere più significative, quelle degli artisti, degli scrittori e dei cineasti che più le avevano informate, o “ispirate”, s’è fatto cenno all’eclatante similitudine tra la versione originale di Carmelo Bene e la sua azione/performance in questione (e, dal ’91, della succedanea Bossy Burger) che lo rese un’icona dell’arte d’oltreoceano.
Le spiegazioni, come sempre succede, potrebbero essere molteplici, ma io ne identifico chiaramente una, banale per quanto ovvia. Riconoscere una vaga influenza beniana sulla propria opera non sarebbe, infatti, stato possibile senza svelare il trucco, cosa che avrebbe fatto crollare d’un baleno il suo culto e soprattutto, in prospettiva di lungo termine le sue quotazioni di mercato. Le due opere sono troppo strettamente imparentate (stilisticamente, narrativamente, oggettivamente) e sarebbe stato, e lo sarebbe tutt’oggi, troppo facile scoprire chi dei due ha plagiato. Ricordo le date: 1968 Bene; 1972 e 1991 Paul Mc Carthy.
Come diceva il saggio «Quando qualcuno dice: questo lo so fare anch’io, vuol dire che lo sa rifare altrimenti lo avrebbe già fatto prima» [Bruno Munari, Verbale scritto, 1992], cioè: a copiare sono buoni tutti ma l’arte risiede nell’atto creativo, non in quello imitativo, dico io.
Sin dalla prima volta che ho visto un Caravaggio dal vivo mi chiedo quale sia il punto, per un pittore, nel continuare ad imitare il suo carnato, le sue messe in scena e la sua luce. Nella fotografia ha un valore diverso ma nella pittura l’ha già fatto, e magnificentemente, il Merisi. I romani dicevano “repetita iuvant” ma non si riferivano certamente alle attività artistiche.
Ora, la differenza tra Carmelo Bene ed un comune mortale che voglia operare nel suo stesso ambito professionale sta nel fatto che l’attore pugliese ha smontato e rimontato cento volte la figura del genio attoriale e ne ha usato tutte le sostanze, abbandonandone, poi, l’involucro vuoto su un palcoscenico qualunque prima di lasciarci; ne ha disposto come meglio credeva e l’ha indossato mille volte in maniera diversa. Stupendoci ogni volta. Gli altri, invece, i suoi successori, che poverini non si chiamano né Carmelo né Bene né, tantomeno, le due insieme, cercano di riempirlo, questo involucro, come meglio possono. Intento, il loro, che, la stragrande maggioranza delle volte, risulta in esperimenti che lasciano il tempo che trovano, quando non imbarazzano.
Insomma, forse dopo Bene si dovrebbero chiudere tutti i teatri del mondo ed aspettare che un paio di generazioni siano passate prima di reintrodurre alla terza «questa forma d’arte “nuova” che è stata così importante nel passato» da accompagnare per millenni l’evoluzione della nostra società.
E, in ultima analisi, diceva bene il beniamino di Francia, l’illustre Antonin Artaud, quando riferendosi alla scena attoriale sua contemporanea ebbe a dire che poteva esser riassunta in due nomi: Keaton (Buster) e Bene (Carmelo). «… Io non credo ai romanzi che scrivi, sai?, ma il tuo diario è in regola …» avrà pensato il genio gongolante!
Manfredi Beninati
P.S.: M’è repentinamente balenato un pensiero che, forse, può essere utile ricordare. Queste di McCarthy hanno fatto da apripista ad una lunga serie di performance di scuola (o di genere) di giovani artisti americani che per generazioni a seguire (incluse quelle attive oggi) hanno opposto questa pretestuosamente dissacratoria “nuova” concezione del mondo e delle relazioni umane all’accademismo tanto odiato, senza, però, mai riuscire ad evolverla, trasformarla in qualcosa di nuovo. Perchè? Semplicemente perchè non conoscono il loro vero padre. Il risultato è stato un ventennio di arte sterile che ha soltanto saputo guardarsi l’ombelico, e non soltanto negli Stati Uniti, ahinoi!
Copyright 2011 © Archivio Flavio Beninati / Manfredi Beninati