Mancando da Palermo da tanti anni e non avendone, neanche prima di lasciarla, mai realmente conosciuto questo suo aspetto di suo profondo attaccamento alle anime di chi nella sua storia ha abitato il suo cuore, rimasi stupito, al mio rientro, dalla somiglianza a lei dei suoi artisti. Quando conobbi Andrea Di Marco mi fu lampante che chi più di tutti le somigliava era lui. Perché Palermo, malgrado le apparenze, è pregna di intelligenza algebrica al punto che a questa preferisce l’istinto. Così, infatti, era Andrea. La sua mente tanto chiara e logica da annoiarlo e spingerlo a rifugiarsi nella natura schietta delle cose, sovrapponendo a lei la propria esperienza, la propria vita.
Nel buio del suo studio, quelle rare volte che lo trovavo a lavoro (come la sua città era pigro anche lui) sulla tela illuminata dal proiettore si muoveva la sua sagoma mentre lui era intento ad annullare la realtà, la vita impressa e stampata nelle diapositive di cui disponeva a suo piacimento, imponendo/apponendo il/la propria/o volere/firma, meta che chiunque anela raggiungere e lui lo faceva tra una birra ed un caffè, ed io l’ammiravo per questo. Ma l’ammiravo non soltanto per questo. Scegliere d’essere pittore è, di per se, da coraggiosi. ”Ad ogni tocco (pennellata) rischio la vita” si diceva in passato (saggezza popolare indossata da pittori moderni -non contemporanei ma moderni-) ed è così. Lo so pure io perché pur io sono pittore. E, in più, pittore figurativo ed ancora oltre… di cose del suo mondo, di Palermo! Ci vuole coraggio, essendo una persona che, intelligente come lui era, potrebbe giocare secondo altre regole che gli garantirebbero entrate ed entrature più consone ad un artista “contemporaneo” di rilievo quale lui, si scoprirà, ne sono certo, tra qualche anno, era.
Aveva il genio del matematico che tutto facilita. Trasformava un foglio di carta in una lama affilatissima. Se v’è capitato di tagliarvi con la carta capirete ciò che intendo, altrimenti probabilmente non mi capirete. I colori pre-preparati allineati sul tavolo difronte alla tela. Sigaretta, pennello (più simile ad una pennellessa quasi sempre), colore. Verde su verde, giallo su giallo, rosso su rosso, terra su terra, ciano su ciano, ocra su ocra… ed ecco l’annientamento è compiuto. Imitare, di più… replicare identicamente, annientare, portare a livello basso di materia l’immagine che ritrae una sua esperienza che gli sopravvive.
Chissà se Andrea si è mai posto questi traguardi, queste considerazioni un po’ così, a dire il vero.
Io, comunque, l’amavo come grande persona e mi onorava la sua amicizia, che purtroppo non ho più. La sua arte la ritengo troppo alta per essere presa in considerazione dalla cerchia di gente che s’occupa d’arte oggigiorno. In futuro , spero, sarà tutto più distaccatamente chiaro e, dunque, non ho dubbi avrebbe le parole che merita il suo lavoro spese sui libri a cui appartiene il suo lavoro.
La pittura deve parlare dell’esperienza di vita del suo autore, del mondo che tutti abbiamo davanti agli occhi filtrato attraverso l’esperienza, l’anima di chi la fa. Andrea faceva solo questo poiché era la sola cosa che l’interessava.
Manfredi Beninati
Novembre o Dicembre 2012
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