Francesco Stocchi, “Manfredi Beninati”, in Flash Art, agosto/settembre 2006
Piombando nell’astratto, nel subconscio e nell’immateriale veniamo guidati per mano da Hans Richter nel suo Dreams That Money Can Buy: la storia visionaria, ma veggente se si pensa al linguaggio artistico moderno, di un giovane che ha l’abilità di creare sogni e venderli a chi ne cerca, trovando un sostentamento che gli permetta di sognare di nuovo. Le storie che compongono il film vengono scritte e interpretate dai più grandi sognatori del suo tempo, figure che caricando l’oggetto di paradosso, sentimento e ironia, hanno affrontato tematiche universali, aiutando a riflettere su nuove problematiche ancora non prese in considerazione.
Riflessioni fondamentali oggi, inesistenti prima di allora. Marcel Duchamp, Ferdinand Lèger, Alexander Calder, Max Ernst e Man Ray giocano tramite Hans Richter con simboli fisici ed immagini surrealiste, il tutto immerso in un’atmosfera onirica ideale. Se si approccia, però, la pellicola con fare divertito, nella leggera ricerca d’intrattenimento o di piacevole evasione, si rimane delusi. Il carico simbolico dell’oggetto e l’introspezione dei personaggi rivelano riflessioni che non permettono d’essere condotte con facilità e compiacenza. Analogamente si può parlare del lavoro di Manfredi Beninati: una celebrazione con fuochi d’artificio, ambienti paradisiaci, colori accesi, positivi. Figurazioni psichedeliche, visioni provenienti da un temporaneo stato di coscienza, non alterato ma superiore.
Come il protagonista della pellicola di Hans Richter, Beninati spaccia sogni a chi viene attratto dal suo mondo, offrendogli un vivo sguardo sul sogno trasmutato in materia. In una scena ricca, popolata da una miriade di oggetti e personaggi l’atmosfera è inaspettatamente sospesa. L’aria rarefatta. Sembra essere arrivati un attimo dopo ed avere di fronte a sé ciò che resta. Il “fatto” è già avvenuto, ecco cosa ne rimane. Beninati cancella e ridipinge sopra, lasciandoci vedere le tracce di qualcosa che non c’è più, offrendoci il resto di un tempo andato, intriso di melanconia e grazia. Come in una pittura astratta, vi è solo l’essenziale del ricordo, una visione scenica che appare in un’architettura teatrale, da palcoscenico.
A partire dal 1857, quando Charles Baudelaire offre al mondo i suoi Fleurs du Mal, l’uomo è alla marcè della melanconia, di pensieri, desideri, incubi. Da qui s’innesca una forte complicità con l’artista. Oltre questo velo che sembra suggerire distanza, attraverso la verticalità del segno che forma una pioggia dal cielo, esiste qualcosa tra noi e Beninati mentre c’invita nel suo giardino magico. Una correità impalpabile e forte, non legata alla figura ma alla costruzione del dipinto che la contiene. La sovrapposizione di visioni, sentimenti, ricordi, dimostra che un lavoro intuitivo puo essere molto lungo, che l’istintività non sempre si associa all’immediatezza. Attraverso l’uso della stratificazione, quel processo che sotterra i nostri ricordi rendendone criptico l’accesso, Beninati fonde in un collage il suo universo, indipendentemente se ciò viene espresso attraverso la pittura, la scultura, il disegno o il collage.
Nell’istallazione presentata alla 51 Biennale di Venezia la creazione di un salotto abbandonato, carico di tempo, ci riconduce mediante un uso cinematografico dell’immagine ad atmosfere che richiamano a Il Gattopardo. Una stratificazione della memoria resa oggetto, cadenzata dalla presenza della Natura che, partendo dalla tradizione Ottocentesca, assume tratti melanconici. Prendere appunti per un sogno da iniziare di pomeriggio e continuare la notte è una ricostruzione della pittura dell’artista in una messa in scena cinematografica, verso la quale il visitatore, carico di morbosa curiosità, può sbirciare attraverso il vetro e solo immaginarsi il resto. Assimilando, mescolando, fondendo, Beninati crea le sue sculture, ominidi solidi che si uniscono sciogliendosi.
Richiamandoci a inquietanti bambole dei riti voodoo, queste creazioni mostrano un lavoro sulla materia più che uno studio di carattere formale. Attraverso il trasferimento di materia morta non meglio definita, una nuova prende vita. Lasciato all’abbandono, l’ominide continua a vivere nel microcosmo creatogli accuratamente intorno, accolto da uno spazio fantasioso, indefinito. Sebbene la natura degli elementi che abitano l’universo di questi lavori ci riconduce a una fiaba, intorno ad essi non si può costruire una narrazione. Beninati non ce lo consente. Oggetti, personaggi, richiami provenienti da mondi e tempi diversi, sono radunati senza voler formare un’unità logica. La loro apparente estraneità determina cortocircuiti, placati dalla democratizzazione del collage che li pone tutti sullo stesso piano. In mancanza di connessioni non esistono gerarchie. L’ovvio diviene prima incoerente, poi interessante e il misterioso labirinto dei sogni dà libera nascita alle forme.
Nulla domina sull’altro, cancellando il significato intrinseco dell’oggetto, lasciandone solo il suo significante. L’osservatore guadagna così un ruolo attivo: selezionando le immagini che ha di fronte, conferisce una posizione dominante alla figura che più gli interessa. Il libero accostamento di elementi incongrui trova quindi la sua naturale espressione nel collage, tecnica surrealista per eccellenza. Nell’introduzione al romanzo-collage di Max Ernst La femme 100 tetes Andrè Breton descrive l’automatismo psichico applicato alle arti visive come una fotografia del pensiero raffigurante la realtà che viene nascosta agli altri, intuendo così la tematica dominante del nostro secolo, quella della psiche.
Beninati non intende infatti fotografare ciò che gli è intorno, ma ciò che abita in lui, lasciando liberamente prevalere la fantasia sulla condotta razionale. Senza abbandonare la figurazione, l’artista non rompe con l’imitazione degli aspetti circostanti. Variando la disposizione dei vari elementi esistenti, ne crea uno nuovo che tutti gli altri riassume. Beninati manifesta la sua vocazione al racconto con la pittura, scrivendo abilmente con immagini i suoi sentimenti. L’artista trova sapientemente la sua forma espressiva con il pennello, ma il suo non è un problema esclusivamente pittorico: la sensibilità trasversale di Beninati gli permetterebbe di esprimersi anche scrivendo o fotografando con ugual efficacia. Un linguaggio che rivela una sincera espressione della psiche che alla sovrapposizione di tempi e di modi diversi, fugge allo sguardo lineare.
Francesco Stocchi