RECENSIONE DI SERENA RIBAUDO PER ESPOARTE, 17 NOVEMBRE 2016
Una combinazione immaginaria ed impossibile secondo il calendario gregoriano di giorno e di data. È da un input denso di sacrale mistero che prende avvio Domenica 10 Dicembre 2039, a cura di Sergio Risaliti alla Galleria Poggiali a Firenze. Per la sua prima mostra personale nel capoluogo toscano Manfredi Beninati trae ispirazione proprio dall’intuizione di un grande fiorentino, il fisico Gabriele Veneziano, padre della “teoria del tutto”. L’atto poietico dell’artista padroneggia sapientemente le fondamentali coordinate di spazio e di tempo per sbrigliarle in cosmologie sempre suscettibili di variabili punti di vista.
Beninati, palermitano per nascita e cittadino del mondo, dà vita ad un percorso eteroclito e visionario che è la più matura summa della sua produzione. Forte della sua formazione presso una scuola di cinema e dell’esperienza a Cinecittà, Manfredi Beninati è aduso a costruire veri e propri set cinematografici che acquisiscono le ineffabili fattezze di metafisici enigmi: egli ricrea con ritualità interni immoti densi di oggetti ove l’immanenza della cosa sensibile si sublima in una personalissima compenetrazione di Kronos e Kairos. La “miscela” che crea le opere di Beninati, come scrive Sergio Risaliti «è quella del linguaggio dell’inconscio che pretende di scegliere ed evidenziare visioni a proprio piacimento, secondo regole e principi immaginifici che non sono quelli del mondo razionale diurno».
Per la Galleria Poggiali, l’artista congela una visione del laboratorio ad essa attiguo, ricostruendone con ossessività il pendant: una vera e propria wunderkammer che si concreta dinanzi agli occhi stupiti del fruitore. Il valore fondante dell’intera mostra è l’essenzialità del dettaglio che diviene protagonista nelle dieci light box – d’una fiamminga bellezza – che costituiscono il primo movimento dell’iter espositivo. Gli ambienti di Beninati di norma non sono calpestabili: sono per converso visionabili attraverso un’interfaccia, che sia una porta, una finestra o una cornice, generando così uno straniante corto-circuito tra bidimensionalità e tridimensionalità.
Sostiene Beninati: «Il concetto opposto della camera oscura di Alberti: si fissa un’inquadratura attraverso delle lenti, per cui anche se ti muovi l’immagine resta fissa sullo specchio, mentre in questo caso avvicinandoti al vetro e muovendoti lungo la superficie del vetro cambi la prospettiva sull’istallazione. È come avere tante versioni di un quadro, tante implicazioni, a me piace moltissimo farle anche per capire delle cose, in modo da, io stesso, sfruttare queste conoscenze in altre attività che possono anche essere quella del dipingere o del disegnare».
Il progetto della mostra prevede inoltre una serie di mezzi busti, cavalli, cerbiatti, maschere in bronzo e bassorilievi in bronzo ed in resina: una rinnovata attenzione alla scultura, tradizionalmente intesa, in quella stessa città che ne è stata nei secoli il superbo Parnaso. Non stupisce che il movente alla scultura di Beninati sia l’alta poesia di Medardo Rosso: difatti l’ispirazione alla vibratile opera di quest’ultimo ancora una volta culmina nella polarizzazione tra seconda dimensione e terza dimensione perché, come chiosa Beninati, Medardo Rosso ragionava bidimensionalmente.
La copiosa produzione scultorea presente in mostra è frutto della stretta collaborazione tra l’artista e la galleria ed è alimentata dal soggiorno pietrasantese di Beninati. Il racconto si scompagina in una serie di impressioni fulminee: la materia diviene greve e si sfrena, acquisisce dolcissime vibrazioni plastiche o conturbante sensuosità tattile. Mirabile anche l’opera ubicata nell’ultima sala: un plinto di marmo bianco su cui Beninati adagia il suo zibaldone, anch’esso in marmo, che accoglie gli appunti del prossimo lavoro, e vicino a questo una tazzina da caffè, ca va sans dire, in marmo. Una sorta di ekphrasis scultorea in cui l’artista narra del suo vivere quotidiano.
Serena Ribaudo